3.
L'oscuramento della canzone napoletana
Di quanto fosse solida, consistente, quell'idea che
niente di nuovo potesse essere fatto con la canzone
napoletana, lo dimostra la collocazione ben definita che
assunsero nei suoi confronti i musicisti napoletani che
ottennero un successo nazionale in un periodo più vicino
a noi nel tempo, dopo un oscuramento durato almeno un
decennio, durante il quale gli unici successi pop di
matrice partenopea sono quelli - ampiamente
americanizzati nel sound e piegati a una voce e a una
logica da cantautore - di Peppino Di Capri. La cosiddetta
"scuola napoletana" pubblicizzata dai
discografici all'inizio degli anni Settanta, è formata
da musicisti per i quali il riferimento al jazz e alla
soul music è più forte di qualsiasi riferimento
regionale, se non nell'uso del dialetto: la
meridionalità consiste in un gioco metonimico con la
negritudine. Di questa costruzione ideologica fanno
parte, con contorni poco definiti, anche la
"solarità" e la "mediterraneità",
ma senza riferimenti specifici a qualunque tradizione
musicale che si possa immaginare di collegare a questi
concetti.
Nella prima metà degli anni Settanta
si afferma a livello nazionale anche la Nuova Compagnia
di Canto Popolare, che invece procede a un recupero molto
deciso ed esplicito di repertori, strumenti e modalità
espressive della tradizione napoletana, anche se - a
giudizio di alcuni - in buona parte focalizzato su fonti
scritte;
non a caso presto vi si contrappongono altre formazioni, come il Gruppo Operaio E' Zezi di Pomigliano d'Arco, che privilegiano il rapporto con la tradizione orale ancora vivente o revivalizzata.
Nell'uno e nell'altro caso si tratta di un lavoro di grande qualità, il cui successo nazionale è particolarmente significativo: eppure va fatto notare come il repertorio della canzone napoletana venga di nuovo considerato come un "altro" a cui contrapporsi, magari - in questo caso - in nome della dialettica popolare-popolaresco di origine bartokiana. Il periodo che va dal 1964 (anno della scandalosa presenza del Nuovo Canzoniere Italiano al Festival di Spoleto) al 1978 (anno dell'uccisione di Aldo Moro, fine del movimento politico noto come "il Sessantotto") è caratterizzato da una presenza forte della musica popolare, del recupero della tradizione orale, sulle scene musicali e nella coscienza dei musicisti italiani, anche di quelli impegnati nella canzone, nella popular music. A volte il revival assume connotati commerciali che disturbano gli studiosi e i praticanti più seri, come quando la "musica folk" approda Canzonissima, epitome del consumo televisivo. Quello che ci interessa ora è che in quegli anni di musica popolare - in Italia - ne circola moltissima, che cantautori e gruppi rock dichiarano di voler sfuggire alle influenze americane per ispirarsi alle "radici autentiche" della canzone italiana, e che - con l'Istituto De Martino in piena attività - non ci sarebbero difficoltà a documentarsi sulle fonti, dai trallallero genovesi ai cori sardi ai balli dei tarantolati, per citare solo alcune delle musiche che per collocazione geografica sono inequivocabilmente mediterranee. Insomma, in questo paese che si stende nel centro del Mediterraneo, con un repertorio di canzoni in dialetto che il mondo identifica col sole e il mare di Napoli (e di Venezia, e di tutta l'Italia), con un patrimonio di tradizione orale riscoperto di recente, ci si potrebbe aspettare che una ricerca di autenticità (se il significato della parola è quello che sembra) nella musica leggera, nella popular music italiana, dovesse passare attraverso un rapporto con questi repertori e queste tradizioni. |
4.
Una tradizione da inventare
Ma questo non avviene, se non in casi sporadici e
limitati, come negli arrangiamenti molto espliciti che la
Premiata Forneria Marconi realizza per alcune
canzoni di Fabrizio De André per la tournée che li vede
insieme nel 1979: ma non si deve dimenticare che - per
stessa ammissione dell'autore - le tarantelle di De
André provengono da Brassens, non da Napoli.
Nel 1981 esce anche in Italia My Life In The Bush Of Ghosts di Brian Eno e David Byrne, nel 1983 il quarto album di Peter Gabriel. Che si tratti di album influentissimi, che tutti negli ambienti della popular music anche italiana hanno consumato, divorato, è fuori discussione. Piero Milesi, produttore dell'ultimo album di Fabrizio De André, Anime Salve (1996), riferisce che a una delle prime riunioni per impostare il lavoro De André si presentò con un album di Peter Gabriel, per indicare le atmosfere sonore che avrebbe voluto ricreare. My Life In The Bush Of Ghosts, con il suo lavoro di montaggio e sovrapposizione fra voci e melodie arabe e basi à la Talking Heads, suggerisce lo spunto a eserciti di digital delays e sequencers. Insomma, all'inizio degli anni Ottanta ci sono tutte le premesse per procedere alla creazione di quel Mediterraneo che non c'è, o che non sembra possibile intravvedere nella musica italiana esistente: un Mediterraneo inesistente, non il primo e nemmeno l'ultimo di una serie di generi o categorie musicali (viene in mente subito il "rock italiano") creati per postulato ideologico, ma non per questo meno reale, meno solido: come il personaggio del romanzo di Italo Calvino, nato dalla volontà del popolo, che anima un'armatura vuota e le fa compiere gesta straordinarie. |